domenica 27 dicembre 2009

Casa

Pigra e indolente, la Roma natalizia mi ha accolto nel suo torpore, abbracciandomi mortalmente. E' da quando sono arrivato, 4 giorni fa, che non riesco letteralmente a fare nulla. I giorni di Natale sono trascorsi lenti e bagnati di pioggia, a passi misurati e pance stravolte da mangiate rituali, tra grandi sbadigli e sorrisi di circostanza. Il mio quartiere non cambia, non cambiano le strade, le piazzette con le comitive di coatti, le pizzerie. E' migliorato negli anni, quello sì, da zona semiperiferica ormai è diventato pieno centro, gli affitti sono schizzati alle stelle, hanno rifatto un po' di marciapiedi...Non è brutto il mio quartiere, no, però che strano camminarci, potrei farlo a occhi chiusi senza cadere mai.

Questa città è una madre che non sa rifiutarmi, è la tasca dei miei pantaloni in cui posso affondare le dita e scandagliare ogni millimetro. Per quanto riesca ancora a sorprendermi, so di conoscerla troppo bene, e forse è anche per questo che ho bisogno di andare via. Ma anche di tornare, perchè si torna sempre da una madre. Prima o poi ci ritornerò a vivere anche io qui, lo so, forse quando sarò stanco di vivere con una valigia che mi guarda, e che riesco sempre a riempire ma mai a svuotare. So che se volessi potrei farlo anche ora. Sono fortunato, ho una casa. Ma c'è tempo. Il mondo è troppo grande, e io non conosco ancora nulla.

sabato 19 dicembre 2009

Sabato mattina

Ho 30 anni. Vivo in India da quasi due. Non ho una moglie, nè una ragazza. Nel giro di qualche mese, a quanto pare, non avrò neanche più un lavoro.

La brutta notizia è che non so bene cosa cazzo fare della mia vita. La bella notizia è che sono libero di fare tutto ciò che voglio, della mia vita.

Ed è terribilmente inebriante.

martedì 8 dicembre 2009

Lo specchio

Mi conosco abbastanza bene per sapere che, quando ho troppa voglia di scrivere, è perchè qualcosa non va. Raramente in vita mia sono in grado di scrivere qualcosa di allegro, e quasi mai sono stato capace di scrivere qualcosa di decente, quando mi sentivo felice. La felicità l'ho sempre vissuta senza saperla descrivere appieno, cercando solo di assaporarla fin dove possibile con i sensi, mentre il dolore o il disagio li ho sempre sviscerati meglio con le parole scritte. Quasi a volerli fissare, per non dimenticarmene, o semplicemente per farli scomparire, trasferendoli dalla mia anima su un foglio o uno schermo. Ma la scrittura, per me, è una catarsi incompiuta.

Quando scrivo, mi rendo conto di quanto sia forte il mio narcisismo. Da piccolo credevo di essere bravo a scrivere, con quella meravigliosa presunzione che contraddistingue gli adolescenti che vogliono spaccare il mondo. Credevo fosse l'unica cosa che sapevo fare. Ci misi poco a capire che non sapevo fare neanche quello. Negli anni, leggendo, confrontandomi, conoscendo gente che sa scrivere davvero, mi sono reso conto della mia mediocrità. Il mio stile, se di stile si può parlare, si è fatto sempre più asciutto, le frasi sempre più brevi e nervose. Ma tuttora, pur cercando di eliminare il superfluo, di asciugarmi, mi accorgo del mio ego che rimbomba, tronfio e posticcio, pervadendo le mie parole. E i miei demoni non vengono cacciati fuori dalle mie frasi. Ci si nascondono dentro, fingendo di scomparire per un po', e ritornano infine a cavalcarle. Ciò che scrivo, allora, diventa brutto, ai miei occhi, perchè mai totalmente libero. Ma a conti fatti, la verità è che non so scrivere di nient'altro che di me stesso.

La bellezza, baby. Quella bisogna cercare. Ovunque sia, a qualunque costo.

Abbiamo solo bisogno di amore e bellezza, e davvero poco altro.

venerdì 4 dicembre 2009

La riscoperta del freddo

"Ma perchè quando ci sentiamo parliamo sempre di lavoro io e te?"
Esitazione. Solo un attimo.
Staccò gli occhi, uno sguardo intorno. Non gli stava dicendo niente che non sapesse già.
"Perchè abbiamo troppa paura per parlare di altro". E sorrise, perchè sapeva di avere ragione.
"Sì, è così", rispose lei.

Il sole tramonta presto a Kathmandu. Passate le cinque era già buio, mentre lì dove viveva lei, a 6 ore di fuso orario di distanza, il sole era ancora alto nel cielo. E faceva freddo, in quel caffè anonimo, il cui unico pregio era quello di avere una connessione senza fili decente.
Da quanto, pensò, non provava quella sensazione. Avere freddo, sentire le dita tese e rigide sulla tastiera, il bisogno di scaldarsi le mani sotto le gambe. Pochi viaggiatori intorno, la tazza di caffè vuota, la voglia improvvisa di una sigaretta, lì dove è ancora permesso.

La conversazione diventò improvvisamente vera. Le parole non apparivano più semplicemente sullo schermo, si materializzavano. Arrivavano veloci, per poi adagiarsi lentamente su un tappeto di pixel. Come macchie impazzite di colore, lanciati con un pennello da un continente all'altro in tempo reale, dipingevano la pelle, chiare e solide si facevano largo, aprendo muri, distruggendo finte certezze. Ora sì, poteva vedere i suoi occhi pieni, i capelli sciolti sulle spalle. Lo sguardo dolce e severo che aveva lasciato andare via.

Il tempo non perdona, le scelte hanno un prezzo. E lei, alla fine, non ci mise molto a scriverlo. Lui non si stupì affatto nello scoprire che un nuovo amore stava crescendo nella sua vita. Ma il freddo improvvisamente cominciò a entrargli nelle vene, insinuandosi nello stomaco, fino a fargli tremare i piedi, le ossa. Ma sapeva, lo sapeva, insomma, serviva che glielo dicesse lei? Cosa c'era di strano? Dov'era la novità, lo stupore? Lo aveva capito molto bene dagli accenti della loro ultima conversazione, lo sentiva, era chiaro, talmente evidente. Ma non aveva mai avuto il coraggio di chiederglielo, perchè fino a quando non lo sai, puoi ancora cullarti nella stupida illusione che quella fotografia resti lì, appesa, per sempre, anche se ormai è sbiadita, fino quasi a decomporsi. Ci si convince che ciò che non vediamo, facendo finta di non sapere, non sia vero, o almeno, non del tutto.

Il pane diventò pane, illuminato da una luce glaciale. E il neon, mio dio, il neon non perdona. Rivela i volti per quello che sono. Elimina il trucco, la facciata, resta solo lo scheletro. E fu in quel momento, che lo schermo divenne uno specchio. D'improvviso, vide tutto per quello che era, come una radiografia: la sua stanchezza, gli occhi calati da un sonno che non riusciva più a recuperare, le delusioni che lo accompagnavano negli ultimi tempi, distante da tutto e da tutti, la sensazione che ci fosse molto di sbagliato. Il calore disperso. L'amore che, semplicemente, non era lì.

La conversazione continuò lieve, volgendo verso una fine annunciata. Ciò che si doveva dire era stato detto, era tempo di ritirare il ponte. Avrebbe voluto scriverle: "Dai, chiudiamo. Non ho voglia di mettermi a piangere qui dentro". Ma non lo scrisse, e non scoppiò a piangere. Soltanto un sorriso nervoso, forse rassegnato, gli colorò il volto. Una battuta stupida, per alleggerire il peso della sera. Gli occhi pieni di vita ritrovata, e subito persa.

Si lasciarono dolcemente, come sempre. Forse si sarebbero visti, nel giro di un paio di mesi, in un momento comune di passaggio a casa. Ma con quali occhi? Per dirsi cosa? Era stanchissimo, il corpo lento e pesante. Si abbandonò su quella sedia sporca, tra una giornata di lavoro non finita e mai davvero cominciata, e i camerieri annoiati che si affacciavano di tanto in tanto in cerca di mance. Il freddo, improvvisamente, era diventato il suo nuovo compagno di viaggio.