domenica 5 dicembre 2010

La notte dei due presidenti


Abito da poco più di una settimana al terzo piano di una palazzina residenziale, in un quartiere abbastanza tranquillo di Abidjan. Da qui ho una  vista piuttosto ampia, che copre tuttavia solo una piccolissima parte di questa città, estremamente estesa. Dalla mia finestra, in questi giorni, ho visto più di una volta grandi fumate nere levarsi nel cielo limpido. Pneumatici bruciati, probabilmente, barricate. Mentre sto scrivendo, in lontananza, si sentono ogni tanto spari, che squarciano il silenzio spettrale del coprifuoco notturno, in vigore ormai da giorni. Sono qui, immobile e impotente, in un paese in cui oggi, nel giro di due ore,  sono stati proclamati due presidenti, dove negli ultimi giorni é successo di tutto, e dove, soprattutto, nessuno sa bene cosa potrà succedere. Ci sono già stati scontri, con morti e feriti, in diverse parti del territorio, Abidjan compresa. La sensazione é che in giro si sappia veramente poco di quello che succede in realtà, e delle violenze che si stanno perpetrando. I canali e le radio straniere sono stati oscurati, resta internet e la radio dell’Onu che ancora trasmette, anche se é stata costretta a cambiare frequenze. La tv di stato, dopo un periodo di relativa imparzialità, é ormai totalmente schierata da una parte, in modo imbarazzante e pericoloso.

E’ la prima volta, nella mia vita, in cui mi trovo in un paese in crisi cosi’ profonda. Non mi piace dire che sia sull’orlo di una guerra civile, perché spero con tutto il cuore che non avvenga, in una terra che ha già sofferto cosi’ tanto. Ma, come scritto da qualche agenzia di stampa, gli ingredienti, purtroppo, ci sono tutti. Un paese spaccato in due. Un presidente uscente proclamato dal Consiglio Costituzionale grazie all’annullamento di centinaia di migliaia di voti per presunte irregolarità. Il suo sfidante, considerato vincitore dalla Commissione Elettorale Indipendente, dalle Nazioni Unite e dalla comunità internazionale, che si proclama a sua volta eletto. Due personalità totalmente agli antipodi, che si odiano, a livello politico e personale. Dieci anni di instabilità, di crisi economica e sociale, di sangue, che queste elezioni avrebbero dovuto portare a termine e che invece rischiano di acuire. Quattro eserciti disposti nel paese: i governativi, che controllano il sud, le forze ribelli a nord, caschi blu dell’Onu e truppe francesi di supporto a fare interposizione tra i due. La storia recente della Costa d’Avorio é un tale casino che, anche dopo averne letto e riletto, ancora non riesco a ricordarmela. Quello che mi é abbastanza chiaro é che sono non più di cinque o sei i personaggi chiave. Gente che si é alleata e combattuta con la stessa facilità, pur di prendere il potere, e che non ha mai risolto, o meglio, non ha voluto risolvere, i problemi reali del popolo ivoriano. Qualcuno di questi ci ha già rimesso la pelle.

Nella nostra mente, quando pensiamo a situazioni di crisi o conflitto, ci immaginiamo edifici in fiamme, gente ammazzata per strada, sparatorie ovunque. La nostra percezione dei conflitti é molto mediatica, visiva, forse perché siamo cresciuti a film di guerra e logiche da breaking news. Non che tutto cio’ non esista, beninteso, ma é anche vero che la realtà dei fatti ha mille sfumature. Qui siamo in una situazione di potenziale conflitto, che per fortuna non degenera e resta relativamente localizzata. Se dovessi ad esempio descrivere lo scenario ad Abidjan dalla mia finestra, potrei dire che, tutto sommato, la situazione é tranquilla. Vivo in un complesso abitato da ivoriani di ceto medio alto, non da bianchi, chiuso tra una delle arterie principali della città e una viuzza di stamberghe e negozietti, dove la gente continua apparentemente a fare la vita sempre, anche se a ritmi più lenti. Per quanto mi riguarda, non posso dire ci sia un reale pericolo per la mia incolumità, a meno che non me lo vada a cercare. La contraddizione sta nel fatto che mi ritrovo ad essere testimone passivo di un momento storico, senza poterne fare realmente parte. Peggio ancora, senza poter fare nulla. 

Sono venuto qui tre mesi fa per lavorare in un progetto di sviluppo per minori vulnerabili. Gli uffici di campo della ong con cui collaboro, da più di una settimana, sono chiusi o comunque marciano a regime ridotto. I quartieri in cui operiamo sono banlieux popolari, molto povere, in cui, negli ultimi giorni,  quotidianamente ci sono scontri tra manifestanti di fazioni opposte, o tra giovani attivisti e polizia. Le famiglie non mandano certo in giro i bambini, le scuole sono chiuse, il paese bloccato. Lo sviluppo non puo’ prodursi in queste condizioni. I nostri operatori locali cercano quantomeno di restare vicino alle famiglie beneficiarie del progetto, telefonandogli, facendogli sentire che non sono stati abbandonati. La paura é tanta, la gente ha ancora negli occhi la guerra, l’orrore, si chiede solo quando finirà.

Io tra poco ripartiro’, se le frontiere, al momento chiuse per ordini militari, verranno riaperte. Lascero’ un paese che non ho avuto nemmeno il tempo di scoprire. Non mi sarebbe dispiaciuto rimanere ancora un po’, ma ho le mie ragioni per partire, non direttamente legate alla situazione di crisi. Penso a chi resterà, a chi non puo’ scegliere, e puo’ solo aspettare. E continuo a sentirmi maledettamente inutile.