lunedì 12 gennaio 2009

L'attesa


Da una ventina di giorni sono in attesa di risposta alla mia domanda di visto per tornare in India. Non mi dilungherò sulle ragioni di questa attesa, e tranquillizzo quanti vogliono andare in India per turismo: il visto turistico è molto semplice da ottenere, basta pagare e il giorno dopo ce l'hai, quindi niente panico.
Quello su cui riflettevo è piuttosto la condizione in cui si trova un migrante nel momento in cui chiede un permesso di soggiorno per poter lavorare regolarmente in Italia o in altri paesi occidentali. Anche io sono un migrante in questo senso: ho chiesto un visto per poter lavorare in un paese straniero e l'ambasciata sta facendo degli accertamenti. Nel frattempo, io continuo a lavorare da Roma col mio computer, ho un tetto che mi accoglie, uno stipendio...insomma, per me aspettare un po' non è sicuramente seccante, ma non certo una questione di vita o di morte. Però mi rendo conto che, almeno in parte, il corso della mia vita è un po' ostaggio della burocrazia di un paese straniero, di ufficiali che scrutano il mio passaporto e si chiedono perchè voglio andare nel loro paese e a fare cosa, quando io voglio semplicemente andare a lavorare. Vi assicuro che non è una situazione piacevole, sentirsi dire ogni volta: "Richiami domani". E vivere, nel mio piccolo, con un minimo di incertezza sulla data della mia partenza.

E cosa vorrà dire allora, per un migrante, uno che come me, ripeto, chiede semplicemente il permesso di lavorare in un altro paese, cosa vorrà dire girare di questura in questura, affrontare la folle burocrazia italiana, sentirsi chiamare clandestino anzichè, come sarebbe corretto, persona non provvista di documenti? Essere umiliato, visto a priori come una minaccia, un pericolo, a prescindere dal suo reale comportamento? Cosa deve provare una badante che lavora da 10 anni in Italia e a cui non rinnovano il permesso di soggiorno perchè magari quell'anno non rientra in una quota? Sentire che la legalità ti respinge, che quello stesso stato che ti chiede di integrarti e di comportarti bene ti dice anche di farti da parte quando non servi più, nonostante tu abbia lavorato e ti sia fatto il mazzo per anni.

Forse noi non possiamo renderci conto davvero di cosa vuol dire. Io sto provando sulla mia pelle solo un millesimo di quello che prova una persona che rischia ogni giorno di essere espulsa, di ritornare in un paese dove probabilmente non ha futuro, di essere costretta, per sopravvivere, a prendere la strada sbagliata. Non è un giudizio di merito, sono solo riflessioni sulla condizione di gente per la quale, a differenza dei migranti ricchi come me, un timbro su un passaporto è davvero una questione di vita o di morte.

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