lunedì 4 ottobre 2010

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Le città viste dagli aerei sono tutte uguali. Neutre. Stanno lì ferme, immobili, le luci scintillanti nella notte, i flussi ininterrotti sulle arterie principali, formiche disciplinate che si disperdono all’orizzonte. Man mano che ti avvicini, i contorni diventano nitidi, puoi distinguere i palazzi, le aree verdi, sezioni i grattacieli e le baraccopoli. Ti chiedi quale sarà il tuo nuovo quartiere, nord, sud, cerchi punti di riferimento, il fiume, una torre. L’aereo si abbassa sempre di più, lasciandosi avvolgere nel loro abbraccio, e le città restano ancora lì, ferme, mentre diventano sempre più grandi, ti guardano insistenti, ma non possono toccarti, non possono farti nulla. Non ancora.

Quando stai per atterrare in una città che non conosci, il primo pensiero è quello di non voler scendere dall’aereo. Sai che ti aspettano nuove regole, che ti hanno descritto a malapena e in fretta. Sai che quello che ti hanno detto é parziale e tendenzialmente volto al positivo, e di certo non ti hanno raccontato tutto. Dovrai decifrare linguaggi sconosciuti e codici di sopravvivenza. Sarà faticoso. Imparare a contrattare coi tassisti, scoprire quanto costa realmente un chilo di mele, cercare di farti fregare il meno possibile. Che ti piaccia o no, sarai costretto a tuffarti nei vicoli e negli ingorghi, di macchine e parole, vedrai occhi nuovi e nuovi occhi ti scruteranno da capo a piedi, per curiosità, per interesse, o semplicemente perché sei uno straniero. Sarai un’altra volta tu, ancora una volta, l’intruso, l’altro. Tutto questo ti eccita almeno quanto ti spaventa. Allora vorresti continuare a restare in aria e girare intorno alla città, ancora un po’, chiedere un altro bicchiere d’acqua alla hostess e slacciarti quella maledetta cintura per poterti sporgere meglio. Vorresti, per un attimo, forse due, chiedere al pilota di tornare indietro. Abbracciare chi hai lasciato a casa, o dovunque diavolo sia, che diventerà per giorni, mesi, una frequenza, un messaggio di posta elettronica, un’immagine deformata da una webcam cinese. Ti chiedi per l’ennesima volta perché hai deciso di vivere così, ma lasci perdere subito, ti conosci abbastanza bene per sapere quanto ti annoierà la tua risposta.

Quanto tempo c’è per vedere il mondo? Quanto tempo c’è per amare?

Benvenuti. La temperatura esterna è di 28 gradi centigradi. Resti seduto. Ogni volta non smetti di sorprenderti di quanta gente scatti in piedi non appena l’aereo si ferma. Ma dove corrono? La temperatura esterna è di 28 gradi centigradi. Vi ringraziamo per aver viaggiato con noi. Bagaglio a mano. Corridoio. Arrivederci. Scale. Navetta. Ma dove corrono? Ti riempi i polmoni di un’aria nuova. Annusi il vento, vorresti capire tutto e subito, assorbire l’asfalto come una spugna. Tasti il terreno, ogni passo è un salto. Sei leggero, sei pesante, ma il tuo corpo è sempre uno solo. Benvenuti.

Gli aeroporti sono meravigliose scatole di vetro, cemento e acciaio. Li adoro quando parto, li detesto quando arrivo, tranne quando torno a casa. All’arrivo perdono la loro magia, diventano piccoli, squallidi contenitori di gente ingrigita dal neon che non vede l’ora di andarsene da lì. Ma un aeroporto alla partenza è un mondo in movimento, un enorme tavolo da biliardo, con migliaia di palle colorate e impazzite che rotolano verso la loro buca, continuamente rimpiazzate da altre palle. L’attesa rende tutti complici, le regole sono uguali per tutti. I volti eccitati di chi vola per la prima volta, le facce felici di chi va in vacanza, i businessmen annoiati che accumulano miglia. Li guardo, uno per uno, mi chiedo dove vanno. Il momento che amo di più è quello dell’imbarco, varcare quella soglia, fare pochi passi in una terra di nessuno, per salire all’aereo. Perché è in quel momento, e solo in quello, che capisci davvero cosa sta succedendo. Poche ore, e sarai dall’altra parte del mondo.

Quando ho una coincidenza, mi piace prendermi un po’ di tempo camminare su e giù per l’aeroporto di transito, fin dove posso arrivare. Mi affascina l’idea di trovarmi in una zona franca, uno spazio asettico e sospeso, senza luogo né tempo, dove per qualche ora convivono masse di sconosciuti assonnati dal fuso orario, fumatori rinchiusi in camere a gas, gente che dorme accovacciata dove capita.

Lo scorso Natale, quando l’Europa era sommersa dal gelo e gli aeroporti cadevano come mosche abbattute dalla neve, rimasi bloccato a Francoforte per otto ore, ascoltando le storie più assurde, di gente che stava lì da tre giorni e tre notti aspettando un volo che chissà quando sarebbe partito. Sembrava che il mondo si fosse dato appuntamento lì, in una strana festa a cui nessuno aveva molta voglia di partecipare. Pensavo a quanto noi uomini ci illudiamo di poter controllare il tempo, di dominare la natura, e poi basta un po’ di neve in più del solito e i nostri miseri schemi tecnologici, frutto di millenni di evoluzione, saltano via in un soffio. Io dovevo andare a Milano, ma quando mi resi conto che sarebbe stato impossibile, riuscii a farmi mettere in lista d’attesa su un volo per Roma. Gli ultimi a salire, alla fine di un imbarco interminabile e surreale, fummo io e Alessandro, un percussionista di Ancona, diretto a Roma per registrare un passaggio televisivo col suo gruppo. Uno dei voli più piacevoli della mia vita, a parlare di musica e di India, condividendo con un estraneo la gioia di avercela fatta. Io e Alessandro ci siamo salutati senza scambiarci nessun contatto. Un paio di mesi fa ci siamo incontrati per caso in un campeggio. Ci siamo fatti una chiacchierata e un mojito, ridendo ancora di quella serata. Coincidenze.

Benvenuti. Gli occhi ora sono stanchi, preoccupati di recuperare bagagli che non sempre arrivano. Nastro numero 2. Suina. Aviaria. Passaporto. Visto. Timbro. Hai superato tutti i controlli, ti stanno cacciando via, non ti faranno rientrare. Mimetiche. Poliziotti. Mitragliette. Ti tocchi le tasche per capire se hai tutto, non ti faranno rientrare. Meno di un minuto e sarai davvero solo. Arriva una folata calda, percepisci il confine dell’aria condizionata, la scatola ti sta sputando fuori. Fuori. FUORI. Mani che reggono cartelli, Mr. Smith – Hotel Radisson. Non ti riguarda. Taxi? Taxi? Where are you going, sir? Vecchio mio, se lo sapessi non sarei qua. Abbracci. Non ti riguarda. Il neon alle spalle, le luci di un parcheggio. Sei fuori. Benvenuti.

Quanto tempo c’è per vedere il mondo? Quanto tempo c’è, per amare?

5 commenti:

Domhir Muñuti ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
Domhir Muñuti ha detto...

fa piacere rileggerti, soprattutto in simili circostanze. non sono sicuro di aver capito la domanda.
mi hai fatto venire voglia di andarmi a comprare un bel romanzo in italiano, per viaggiare con la testa e stare a casa con la lingua. le mie chiappe invece resteranno ancora per un po' in questa sparigi, dove c'è tutto sommato poco da decifrare. ma è il posto ideale per chi non ha deciso dove andare.

magritte ha detto...

La domanda, mio caro, sta li sospesa tra il gioco letterario e le questioni irrisolte. Il viaggio porta conoscenza ma anche lontananza. L'amore, almeno in certe forme, richiede presenza e calore. Le due cose non si escludono necessariamente. Ma quando non coincidono, restano due poli distanti governati da un'unica unità di tempo. E' un bel po' che ci rifletto, e la risposta ancora non la trovo. Ma forse, è solo un mio problema.

Domhir Muñuti ha detto...

"buon coraggio" per questa nuova avventura. ci si sente presto.

Anonimo ha detto...

una volta mi hai detto che quando scrivi è perchè sei triste. spero non sia questo il caso.