domenica 5 dicembre 2010
La notte dei due presidenti

sabato 6 novembre 2010
La perdita dell'innocenza

mercoledì 3 novembre 2010
Sono le 17,30 e tutto va bene
Sono le 17,30 ad Abdijan, e il sole si sta spegnendo lentamente su una delle giornate più importanti nella storia della Costa d'Avorio. Oggi la commissione elettorale indipendente dichiarerà i risultati delle elezioni, che, una volta approvati dall'ONU, saranno definitivi.
Ho deciso di uscire di casa e di farmi un giro, per non lasciarmi sopraffare dal mal di testa e dalla spirale di psicosi che tiene gli ivoriani e gli espatriati col fiato sospeso. Un fiato sospeso che lentamente, con prudenza, sembra trasformarsi in un sospiro di sollievo. La vita non é ripresa del tutto normalmente, certo, molti uffici e negozi sono chiusi, c’é ancora paura, ma la gente passeggia per strada, chiacchiera, beve una birra. Un quadro per fortuna ben lontano dai timori e dalle ansie che tutti qui si sono scambiati in questi ultimi giorni.
Scriveva Ryszard Kapuscinski, uno che di guerre e di Africa ci capiva parecchio:
Se questo era vero negli anni ’60, lo é ancora di più ora, dato che oggi la comunicazione é infinitamente più rapida e potente, e i suoi mezzi possono facilmente essere manipolati e contribuire a far montare la tensione in un baleno su larga scala. Bisogna farsi coraggio, allora, e tentare di sconfiggere la paura, restando prudenti e coscienti del fatto che
Troppo presto allora per dire quale piega prenderà la storia qui in Costa d’Avorio nelle prossime settimane. Posso dirvi quello che so, e che non leggerete mai sui giornali italiani, un po’ perché ci sono state votazioni più importanti in questi giorni (Usa, Brasile), e un po’ perché le elezioni in uno stato africano non fanno notizia, a meno che non ci scappino molti morti, meglio se a colpi di machete, che dà sempre quel tocco di colore in più e ci ricorda la differenza tra popoli civilizzati e selvaggi.
Io ho visto un popolo entusiasta di andare a votare dopo che per 5 anni questo diritto gli era stato negato. In una nazione spaccata e ancora ferita, la gente ha aspettato ore in fila, sotto il sole, tranquillamente e senza incidenti, per esercitare un proprio diritto fondamentale. Il tasso di partecipazione é stato dell’80%, un risultato enorme, soprattutto pensando che nel 2000 voto’ solo il 35% degli aventi diritto.Gli ivoriani hanno voglia di pace, e lo hanno gridato al mondo.
Certo, non tutto é perfetto. Si tratta comunque di una base elettorale di neanche sei milioni di votanti su una popolazione di pîù di venti. Pare che a 14 osservatori europei sia stato precluso l’accesso ad alcuni uffici della commissione elettorale. Ma le cose sono andate liscie nel complesso, molto più del previsto. I dati non sono ancora definitivi, ma si profila una sfida al secondo turno tra Gbagbo, il presidente uscente, e Ouattara, l’ex primo ministro. Sarebbe il risultato migliore in termini di pace sociale, quello che secondo un po’ tutti gli osservatori presenta il minor rischio di degenerazioni violente. Sarà una campagna lunga, fino al 26 novembre.
Fermo a un semaforo, osservavo la luce tenue riflettersi sui palazzi, e mi sorprendevo a pensare quanto sia normale, per me , mettere una croce su una scheda elettorale, o decidere di non metterla.

sabato 30 ottobre 2010
Election day
Negli ultimi 10 anni la Costa d’Avorio ha attraversato il periodo più buio della sua storia recente. Il paese é sprofondato in una profonda crisi politica ed economica, ha vissuto una guerra civile che ha lasciato dietro di sé una lunga scia di sangue, e resta profondamente diviso e non del tutto pacificato, La gente ormai é stanca, ha voglia di pace e di stabilità. In giro l’emozione é palpabile, i caroselli elettorali, colorati e rumorosi, invadono le città da nord a sud. Gli ivoriani sono entusiasti di potersi finalmente recare di nuovo alle urne, e sperano di voltare pagina, chiunque sia il vincitore.
Ma il significato e l’importanza di queste elezioni travalicano i confini ivoriani. Si tratta infatti di un banco di prova per la democrazia nel continente africano. Se tutto si svolgerà in maniera regolare e pacifica, sarà la dimostrazione che i paesi africani sono ormai capaci di uscire da crisi profonde e pluriennali senza la necessità di ricorrere a guerre o colpi di stato, nel rispetto delle regole democratiche. Sancendo anche, ovviamente, una grande vittoria per le Nazioni Unite, che da tempo hanno bisogno di recuperare credibilità in merito alla loro costosa efficacia.
Ufficialmente i candidati sono 14, ma nei fatti se la giocheranno in tre. L’uomo da battere é certamente Laurent Gbagbo candidato del Front Populaire Ivoirien (FPI). Presidente in carica dal 2000, é salito al potere grazie ad elezioni dubbie (i principali avversari erano stati esclusi dalla Corte Suprema con motivazioni discutibili), e da allora non ha mai ceduto la poltrona. I suoi 10 anni di governo sono stati segnati dal crollo di tutti gli indicatori economici e sociali, dal proliferare della corruzione che strangola il paese come non mai, e da un ampio controllo dei media e degli apparati del potere. Populista, uomo di cultura, parla alla gente in modo semplice, ponendosi come uno di loro, e propone un programma essenziale basato su grandi riforme in materia di educazione, sanità, infrastrutture e impiego. A chi gli ricorda di aver avuto 10 anni di governo per poter mettere in atto questo programma, Gbagbo risponde dando la colpa della crisi alla guerra civile, e ai suoi avversari politici che l’hanno provocata, impedendogli di governare. « Ora che la pace é stata raggiunta » recita uno dei suoi slogan « arriverà lo sviluppo ». Sebbene non sia ben visto dalle diplomazie occidentali, puo’ vantare amicizie di rilievo con altri leader africani e con alcuni esponenti di spicco del socialismo francese, tra cui l’ex ministro della cultura Jack Lang, la cui presenza é annunciata a Abidjan in questi giorni.
Henri-Konan Bedié é il suo principale avversario, colui che probabilmente sfiderà Gbagbo al secondo turno, previsto per il 26 novembre. Presidente dal 1993 al 1999, rovesciato con un colpo di stato militare e fuggito poi in esilio in Francia, é il leader del Parti Democratique de la Cote d’Ivoire (PDCI) e l’erede designato di Felix Houphouet Boigny, il vecchio dittatore buon amico dei francesi, che ha governato il paese dal 1960 al 1993. Bedié é un uomo di stato navigato, ed il suo slogan elettorale recita « La nostra esperienza al servizio dell’avvenire ». Il suo programma si basa sul rilancio dell’economia in chiave liberale, su una politica sociale forte e una cultura nazionale aperta e dinamica. Il suo punto debole? Certamente l’età, 76 anni, e la sua assenza da incarichi istituzionali negli ultimi 11 anni, fattori che lo rendono praticamente sconosciuto ai giovani dai 18 ai 25, ossia la maggioranza dell’elettorato
Il terzo incomodo é l’economista Alassane Dramane Ouattara, capo del Rassemblement des republicains (RDR). Amato dalle elites economiche e finaziarie, anche in virtù di un suo passaggio al Fondo Monetario Internazionale, ha basato la sua campagna elettorale su grandi numeri e promesse ambiziose: 1 milione di posti di lavoro, nuovi ospedali e università, 500.000 progetti di sviluppo in 5 anni. E i soldi? Ouattara, ADO per i suoi sostenitori, punta tutto sulle sue amicizie importanti e sulla sua credibilità per ottenere ingenti prestiti dalla comunità internazionale. E’ proprio questo il suo limite: buona parte dell’elettorato lo percepisce come un uomo freddo e distante dai problemi della gente comune, e Gbagbo ha gioco facile nel definire sia lui che Bedié i candidati degli stranieri, gli amici di quelli che vogliono ricolonizzare la Costa d’Avorio. Inoltre, anche lui é poco conosciuto dagli elettori giovani.
La presenza internazionale é particolarmente forte. Dal 2004 in Costa d’Avorio é presente una missione delle Nazioni Unite (ONUCI), incaricata di far rispettare gli accordi di pace di Linas-Marcoussis siglati nel gennaio 2003. Il contingente ONU, stanziato soprattutto nel nord del paese dove si occupa principalmente di interposizione tra le fazioni in lotta e disarmo dei ribelli, é stato rinforzato di 500 unità in occasione delle elezioni. Il ruolo dell’ONU é cruciale, dal momento che sarà proprio l’ONUCI a dare l’approvazione definitiva dei risultati elettoriali. Inoltre, é presente una missione di osservatori dell’Unione Europea.
Ad Abidjan, capitale economica e principale città del paese (la capitale politica é Yamassoukro, ma nessuno sembra essersene accorto finora), tutto é molto tranquillo finora. Il clima é disteso e non si segnalano episodi di scontri o violenze, a parte qualche scaramuccia isolata. La maggior parte dei candidati ha chiuso qui in la sua campagna elettorale. La posta in gioco é alta : ad Abidjan risiede il 30% dell’elettorato, chi conquista la capitale vince. I tre principali candidati lo sanno bene, cosi come sanno che questa é la loro ultima chance di mantenere o conquistare il potere, prima dell’avvento di una nuova classe dirigente. Per questo, la lotta é senza esclusione di colpi. E per questo, sebbene finora sia andato tutto liscio, nessuno sa bene cosa succederà dopo la proclamazione dei risultati.

sabato 9 ottobre 2010
24 ottobre 2004
di automobili
questa è la mia città
stanotte

lunedì 4 ottobre 2010
Untitled

Le città viste dagli aerei sono tutte uguali. Neutre. Stanno lì ferme, immobili, le luci scintillanti nella notte, i flussi ininterrotti sulle arterie principali, formiche disciplinate che si disperdono all’orizzonte. Man mano che ti avvicini, i contorni diventano nitidi, puoi distinguere i palazzi, le aree verdi, sezioni i grattacieli e le baraccopoli. Ti chiedi quale sarà il tuo nuovo quartiere, nord, sud, cerchi punti di riferimento, il fiume, una torre. L’aereo si abbassa sempre di più, lasciandosi avvolgere nel loro abbraccio, e le città restano ancora lì, ferme, mentre diventano sempre più grandi, ti guardano insistenti, ma non possono toccarti, non possono farti nulla. Non ancora.
Quando stai per atterrare in una città che non conosci, il primo pensiero è quello di non voler scendere dall’aereo. Sai che ti aspettano nuove regole, che ti hanno descritto a malapena e in fretta. Sai che quello che ti hanno detto é parziale e tendenzialmente volto al positivo, e di certo non ti hanno raccontato tutto. Dovrai decifrare linguaggi sconosciuti e codici di sopravvivenza. Sarà faticoso. Imparare a contrattare coi tassisti, scoprire quanto costa realmente un chilo di mele, cercare di farti fregare il meno possibile. Che ti piaccia o no, sarai costretto a tuffarti nei vicoli e negli ingorghi, di macchine e parole, vedrai occhi nuovi e nuovi occhi ti scruteranno da capo a piedi, per curiosità, per interesse, o semplicemente perché sei uno straniero. Sarai un’altra volta tu, ancora una volta, l’intruso, l’altro. Tutto questo ti eccita almeno quanto ti spaventa. Allora vorresti continuare a restare in aria e girare intorno alla città, ancora un po’, chiedere un altro bicchiere d’acqua alla hostess e slacciarti quella maledetta cintura per poterti sporgere meglio. Vorresti, per un attimo, forse due, chiedere al pilota di tornare indietro. Abbracciare chi hai lasciato a casa, o dovunque diavolo sia, che diventerà per giorni, mesi, una frequenza, un messaggio di posta elettronica, un’immagine deformata da una webcam cinese. Ti chiedi per l’ennesima volta perché hai deciso di vivere così, ma lasci perdere subito, ti conosci abbastanza bene per sapere quanto ti annoierà la tua risposta.
Quanto tempo c’è per vedere il mondo? Quanto tempo c’è per amare?
Benvenuti. La temperatura esterna è di 28 gradi centigradi. Resti seduto. Ogni volta non smetti di sorprenderti di quanta gente scatti in piedi non appena l’aereo si ferma. Ma dove corrono? La temperatura esterna è di 28 gradi centigradi. Vi ringraziamo per aver viaggiato con noi. Bagaglio a mano. Corridoio. Arrivederci. Scale. Navetta. Ma dove corrono? Ti riempi i polmoni di un’aria nuova. Annusi il vento, vorresti capire tutto e subito, assorbire l’asfalto come una spugna. Tasti il terreno, ogni passo è un salto. Sei leggero, sei pesante, ma il tuo corpo è sempre uno solo. Benvenuti.
Gli aeroporti sono meravigliose scatole di vetro, cemento e acciaio. Li adoro quando parto, li detesto quando arrivo, tranne quando torno a casa. All’arrivo perdono la loro magia, diventano piccoli, squallidi contenitori di gente ingrigita dal neon che non vede l’ora di andarsene da lì. Ma un aeroporto alla partenza è un mondo in movimento, un enorme tavolo da biliardo, con migliaia di palle colorate e impazzite che rotolano verso la loro buca, continuamente rimpiazzate da altre palle. L’attesa rende tutti complici, le regole sono uguali per tutti. I volti eccitati di chi vola per la prima volta, le facce felici di chi va in vacanza, i businessmen annoiati che accumulano miglia. Li guardo, uno per uno, mi chiedo dove vanno. Il momento che amo di più è quello dell’imbarco, varcare quella soglia, fare pochi passi in una terra di nessuno, per salire all’aereo. Perché è in quel momento, e solo in quello, che capisci davvero cosa sta succedendo. Poche ore, e sarai dall’altra parte del mondo.
Quando ho una coincidenza, mi piace prendermi un po’ di tempo camminare su e giù per l’aeroporto di transito, fin dove posso arrivare. Mi affascina l’idea di trovarmi in una zona franca, uno spazio asettico e sospeso, senza luogo né tempo, dove per qualche ora convivono masse di sconosciuti assonnati dal fuso orario, fumatori rinchiusi in camere a gas, gente che dorme accovacciata dove capita.
Lo scorso Natale, quando l’Europa era sommersa dal gelo e gli aeroporti cadevano come mosche abbattute dalla neve, rimasi bloccato a Francoforte per otto ore, ascoltando le storie più assurde, di gente che stava lì da tre giorni e tre notti aspettando un volo che chissà quando sarebbe partito. Sembrava che il mondo si fosse dato appuntamento lì, in una strana festa a cui nessuno aveva molta voglia di partecipare. Pensavo a quanto noi uomini ci illudiamo di poter controllare il tempo, di dominare la natura, e poi basta un po’ di neve in più del solito e i nostri miseri schemi tecnologici, frutto di millenni di evoluzione, saltano via in un soffio. Io dovevo andare a Milano, ma quando mi resi conto che sarebbe stato impossibile, riuscii a farmi mettere in lista d’attesa su un volo per Roma. Gli ultimi a salire, alla fine di un imbarco interminabile e surreale, fummo io e Alessandro, un percussionista di Ancona, diretto a Roma per registrare un passaggio televisivo col suo gruppo. Uno dei voli più piacevoli della mia vita, a parlare di musica e di India, condividendo con un estraneo la gioia di avercela fatta. Io e Alessandro ci siamo salutati senza scambiarci nessun contatto. Un paio di mesi fa ci siamo incontrati per caso in un campeggio. Ci siamo fatti una chiacchierata e un mojito, ridendo ancora di quella serata. Coincidenze.
Benvenuti. Gli occhi ora sono stanchi, preoccupati di recuperare bagagli che non sempre arrivano. Nastro numero 2. Suina. Aviaria. Passaporto. Visto. Timbro. Hai superato tutti i controlli, ti stanno cacciando via, non ti faranno rientrare. Mimetiche. Poliziotti. Mitragliette. Ti tocchi le tasche per capire se hai tutto, non ti faranno rientrare. Meno di un minuto e sarai davvero solo. Arriva una folata calda, percepisci il confine dell’aria condizionata, la scatola ti sta sputando fuori. Fuori. FUORI. Mani che reggono cartelli, Mr. Smith – Hotel Radisson. Non ti riguarda. Taxi? Taxi? Where are you going, sir? Vecchio mio, se lo sapessi non sarei qua. Abbracci. Non ti riguarda. Il neon alle spalle, le luci di un parcheggio. Sei fuori. Benvenuti.
Quanto tempo c’è per vedere il mondo? Quanto tempo c’è, per amare?

giovedì 28 gennaio 2010
The city that never sleeps

J. sgrana gli occhi, mentre lo esclama. E quasi non ci crede, quando gli dico che da 2 anni vivo a Calcutta. Ha 40 anni, portati alla grande. Alto e robusto, occhi profondi e capelli lunghi, J. è nato a Mumbai da genitori indiani, padre militare e mamma insegnante. Tuttavia, ha origini curiose, dato che suo nonno paterno era un soldato tedesco impiegato sul fronte birmano, finito ad Agra non si sa bene come dopo la guerra, e sua nonna un’infermiera cingalese, che su quel fronte si è innamorata di quel bel soldato bianco. J. lavora per un’importante agenzia di eventi di spettacolo. Lui e la sua unità, in pratica, devono assicurarsi che tutte le più importanti stelle di Bollywood partecipino a questi eventi, e fare in modo che tutto fili liscio. Ne sa parecchio lui, sulle capricciose divinità della più grande industria cinematografica mondiale, ma non vi svelerà mai e poi mai nulla su di loro che non sappiate già. E’ un professionista serio, J., e una persona estremamente intelligente. Sposato, divorziato, con una figlia piccola, J. convive da un anno e mezzo con il suo ragazzo, un francese della mia età, attore belloccio e di belle speranza che vive nella capitale del Maharastra da ormai 5 anni. Presto vi rappresenterà il suo primo monologo, metà in inglese, metà in hindi, in un elegante teatro costruito alla fine degli anni ’70 e immerso nel verde, a due passi dalla famosa Juhu Beach. Soggetto? Che domande…Mumbai!.
J. ha girato mezzo mondo, e adora viaggiare. Ma se gli chiedi in quale città vuole vivere, non ha un attimo di esitazione nel risponderti: quella in cui vivo ora. L’unica possibile alternativa, per un vero mumbaikar come lui, potrebbe forse essere New York, che ama molto, ma che, inevitabilmente, finisce per definire “a cleaner Mumbai”.
Una storia come quella di J. difficilmente la puoi trovare in un’altra metropoli indiana. O meglio, difficilmente ne puoi trovare così tante. Mumbai è quanto di più lontano ci possa essere da un certo noioso immaginario occidentale dell’India remota, pacifica e spirituale, e va ben oltre l’idea di ricchezza e progresso che possiamo leggere dai numeri sulla crescita del pil della nuova India. Sfacciatamente più ricca e cosmopolita di Calcutta, ben più glamourous e divertente di Delhi, meno bacchettona e provinciale di Bangalore, Mumbai, o Bombay, o come la vuoi chiamare, è la sintesi perfetta dell'ultima generazione di contraddizioni del subcontinente. La metropoli più amata, odiata e invidiata dal resto del paese, un’accozzaglia di isole di sabbia dove si ammassano 15 milioni di anime (dichiarate, ma sono certamente molte di più), che per tutti rappresenta un sogno, e per molti si tramuta in un incubo. Qui puoi incontrare immigrati da tutti gli stati dell’India, e le loro incredibili storie di miseria e nobiltà, insieme ad una folta comunità di stranieri, tra cui non pochi, per scelta ben consapevole, ci si stabiliscono. Per un certo tipo di occidentali che amano l’India ma non vogliono rinunciare a un certo standard di vita culturale e sociale, infatti, Mumbai rappresenta il perfetto (e caro) compromesso. Anche se a volte molto stressante, se non insopportabile.
Bombay town ha un’architettura spettacolare e sorprendente, e mi chiedo quanto potesse essere bella, prima che la speculazione selvaggia cominciasse a devastarne il patrimonio urbanistico. Maestosi palazzi neo gotici, squadrati edifici art déco, casette colorate in stile portoghese, eleganti ville alla francese. Puoi girare l’angolo ed avere la sensazione di trovarti a Bruxelles, Parigi, o addirittura in Sud America o in qualche città dell’Italia meridionale, se non avessi accanto un tempietto con l’immagine di Shiva o uno slum giusto dietro l’angolo. E se è vero, come si dice, che l’India è l’unico paese al mondo ad ospitare tutte le maggiori religioni, a Bombay ne hai la prova vivente. Le chiese cristiane, i templi hinduisti e jainisti, le moschee, i gurudwara dei sikh,i luoghi di culto dei parsi zoroastriani, le sinagoghe. Scegli il tuo dio, qua lo incontrerai di sicuro, se non è andato a bersi una birra a Bandra, insieme a qualche collega.
Mumbai dunque. Finalmente ne ho avuto un assaggio, dello scenario dell’epopea romantica indo-occidentale di Slumdog Millionaire e Shanta Ram. La città dove in egual misura convivono lussuria capitalista e puritanesimo religioso-nazionalista. Il triste palco dei pogrom anti musulmani nel '92 e delle bombe del “venerdì nero” del ‘93, questa megalopoli ha da tempo una storia contorta e controversa. Ma molti, nel mondo, si sono improvvisamente ricordati della sua esistenza sgranando gli occhi davanti al televisore, di fronte all’istantanea del glorioso Taj Mahal, messo a ferro e fuoco negli attacchi del 26 novembre 2008. Allora, finalmente, anche il resto del pianeta si è accorto che il terrorismo islamico stava colpendo duramente, e a fondo, l’India. Eh sì, perchè questa volta, ahimè, c’erano di mezzo anche i fratelli bianchi.
In due giorni non si riesce a capire nulla di niente, figuriamoci se si tratta di una delle più grandi metropoli del mondo. Allora ci rinuncio. Per me, Mumbai resta un bacio rubato per strada alle tre del mattino del sessantesimo Republic Day indiano, con la speranza di rincontrarsi, un futuro incerto, e due dolcissimi occhi di fuoco in una notte ubriaca.
Ancora svegli, nella città che non dorme mai.
