domenica 21 dicembre 2008

Dividersi la vita

La stanzialità e il movimento sono scelte, entrambi rispettabili. Nessuna delle due è a priori migliore dell'altra. Ciò che le può rendere discutibili è il fattore che le determina, soprattutto quando si tratta della paura, un elemento che le può rendere incredibilmente simili. Chi non si muove da casa per paura dell'ignoto non è in fondo troppo diverso da chi si muove continuamente per scappare da qualcosa, o, più semplicemente, da se stesso. Entrambi permettono che sia la paura, e non una loro scelta precisa, a determinare il loro status, e si lasciano cullare o da una comoda accidia, o da una ciclica frenesia.

In questa fase della mia vita, sto cercando di vivere un compromesso tra questi due estremi, in quello che si potrebbe definire una sorta di nomadismo lavorativo stanziale. Scelgo di andarmene a vivere e lavorare in un posto, restandoci però un tempo di media durata, probabilmente lungo abbastanza per farmelo odiare e cercarmene un altro. Questa scelta, che nella sua accezione più larga condivido con chissà quanti milioni di persone nel mondo, dai funzionari Onu ai migranti (anche se per questi ultimi in realtà spesso non è una scelta ma pura bnecessità di sopravvivenza), con tutte le differenze del caso, comporta un grosso rischio, che io chiamo "dividersi la vita".

Stanotte prenderò un aereo, e domani a pranzo sarò a Roma, rivedrò i miei genitori , i miei affetti. D'improvviso i suoni, gli odori e il casino di Calcutta saranno lontani, e lasceranno il posto al calore della mia città sotto Natale, bella come non mai. Passerò da un clima a malapena autunnale al freddo invernale europeo, dall'Hoogly al Tevere, attraversando Ponte Sisto anzichè l'Howrah Bridge. In un modo o in altro, per necessità, sto così imparando a dividermi la vita, ad accelerare la mia capacità di adattamento, in questi sbalzi repentini da una parte all'altra del mondo. Ma ci sono sempre due poli opposti della mia anima, che fanno a cazzotti lungo il filo di emozioni contrastanti.

Vivere in questo modo può avere un suo fascino, ma la schizofrenia emotiva è sempre in agguato. Ogni volta che si riparte, si ha paura di perdere qualcosa, che quella persona che ci ha accompagnato all'aeroporto o ci è venuta a prendere non sarà lì la prossima volta, ad aspettarci paziente mentre già prenotiamo il volo successivo. I nuovi incontri, le nuove facce che si incontrano, sono direttamente proporzionali a quelle che perdi lungo il cammino, a volte anche solo per pura pigrizia, e allora non bastano tutti i facebook del mondo a recuperarle. Si guadagna tanto, certo, ma ci si fanno anche un sacco di domande: mi dovrò fermare? ma soprattutto, a quale stazione?

Credo che, in fondo, anche il mio nomadismo stanziale derivi da un elemento di paura. Probabilmente, la paura di annoiarmi, di non avere nuove sfide da affrontare, di ricomporre troppo la mia vita così da renderla ai miei occhi meno ricca e imprevista. Ma so già che prima o poi mi fermerò, quando ne avrò voglia. E per ora, va bene così.

Buon viaggio a tutti.

domenica 14 settembre 2008

Il gigante ferito


Sabato pomeriggio, l'ennesima serie di esplosioni ha ucciso almeno 20 persone a Delhi. 5 bombe sono scoppiate in vari punti della città nel giro di mezz'ora, tra le 18 e le 1830, in mezzo alla gente che andava a fare shopping. 2 bombe ineplose, una delle quali piazzata in un parco giochi per bambini. Scene che in India rischiano di diventare ormai quasi ordinarie. Mumbai, Bangalore, Jaipur, Ahmedabad, Delhi. L'India sembra essere diventata il bersaglio preferito del terrorismo fondamentalista islamico, per molteplici ragioni. Il governo federale, guidato dal Partito del Congresso di Sonia Gandhi, sembra assolutamente impotente e incapace di fermare questa scia, ed il rischio è che la rabbia degli hindu sfoci in nuovi pogrom contro i musulmani, che, anche se minoranza, sono numerosi in diverse zone del paese. L'India è diventato ormai per i terroristi un soft target, un bersaglio facile. E nonostante la tecnica sia ormai sempre la stessa (una serie di bombe piazzate in cestini della spazzatura, biciclette, motorini, che esplodono in rapida sequenza), questi agenti di morte continuano ad agire indisturbati, a uccidere e ferire in modo assolutamente casuale.

E' un male, un odio puro e sconvolgente, che ha radici lontane e antiche, frutto di un astio tra hindu e musulmani creato e foraggiato ad arte dai fondamentalisti di entrambe le religioni, che, fino all'indipendenza del 1947 e alla successiva partition da cui è nato il Pakistan, erano riuscite a mantenere un buon equilibrio. Nel 2009 ci saranno le elezioni, e il rischio è che il BJP, il partito nazionalista hindu, che già ha la maggioranza in alcuni stati, e che baserà la sua campagna sulla lotta al terrorismo, prenda il sopravvento e stravinca. Con tutto quello che ne comporterebbe.

Quello che mi colpisce è constatare ancora una volta quanto sia labile il confine tra la vita e la morte qui in India. E' un paese che a volte sembra essere completamente rassegnato al proprio destino, come se non avesse un'altra possibilità, una via per risolvere i propri immensi problemi o almeno attenuarli. I giornali riportano ogni giorno trafiletti che parlano di persone uccise in manifestazioni o scontri con la polizia (specialmente in Jammu Kashmir, regione a nord contesa col Pakistan da decenni). Trafiletti, notizie di poco conto. Ed anche il terrorismo (le ultime bombe erano esplose a fine luglio) sembra quasi essere diventato una cosa normale, una consuetudine, un qualcosa che può accadere.

Mi chiedo quando e come la società civile indiana, che esiste ma troppo spesso è ignorata e inascoltata, riuscirà non solo ad alzare la propria voce e a farsi sentire, ma soprattutto, a creare un sentimento di appartenenza comune e di convivenza pacifica, in questo stato immenso e contraddittorio, che oggi più che mai ha davvero bisogno di ritrovare se stesso.

domenica 7 settembre 2008

L'amante sfuggente


E fuori Milano muore di malinconia, di sole che tramonta là in periferia,
di auto del ritorno, famiglie, freni e gas di scarico.

Lontano il centro, è quasi un altro mondo,
San Siro un urlo che non cogli a fondo,
ti taglia un senso vago di infinito panico (...)

Ed io, burattinaio di parole, perchè mi perdo dietro a un primo sole?

Perchè mi prende questa assurda nostalgia?

Francesco Guccini, "Samantha"

A Milano ci ho vissuto sei mesi scarsi, prima di ripassare per Roma e volare in India. Ultimamente mi ritorna spesso in mente, forse perchè ora vivo in una città che, nel bene o nel male, è quanto di più diverso possa esistere. E poi perchè a Milano non mi sembra di averci vissuto realmente, ma di averla solo sfiorata, e quindi, di non averla capita.

Le città non sono mai quello che sono o quello che sembrano, ma sono lo spirito con cui le vivi, i volti dei tuoi compagni di viaggio e dei tuoi coinquilini. Milano l'ho posseduta velocemente, in un periodo di grande consapevolezza nella mia vita, ma circondato da enormi contrasti e da stati d'animo altalenanti. Settimane veloci di cui ho raccolto poche istantanee, alcune sfocate, forse solo annebbiate. Un locale sui Navigli, le osterie. Le domeniche pomeriggio, la luce fredda e limpida del sole di novembre che smussa il grigiore dei palazzi e le facciate squadrate, e rende tutto più dolce. Lambrate, Isola, la Milano proletaria, se ancora ha un senso questa parola, e studentesca. Piazzale Loreto, un anonimo spiazzo da cui partono almeno tre città diverse. I locali fighetti, la gente vestita tutta uguale che dopo una settimana di lavoro e smog vuole solo ammazzare il sabato con un entusiasmo che trasuda di prepagato. Gli alberghetti di via Porpora, con le improbabili reception e i portieri annoiati, aspettando l'ennesima coppia di una notte e via. La città sfavillante e strabordante sotto Natale, con le luminarie fantascientifiche per accaparrarsi l'Expo. La città dei tranvieri perennemente incazzati e della gente che sembra mandarti a cagare anche quando è gentile. La circonvalla vista dal bus notturno, con le luci gialle oscurate dagli alberi.

Sì, Milano l'ho appena incontrata, ma non sono riuscito a coglierne a fondo l'energia che pulsa nel sottobosco. Questa energia viene dal fatto che in fondo, più che una città, è un crocevia, e la sua identità seria e produttiva è sempre più contaminata dalle migliaia di forestieri che, volenti o nolenti, la vivono e la rendono viva. Perchè Milano non la scegli, ci stai perchè ci nasci o perchè ci vai a lavorare. Nella meno italiana delle grandi città italiane. Un'amante lasciva e sofisticata, sfuggente quanto basta per farti capire che non ti innamorerai mai di lei, ma che saprà sorprenderti quando meno te l'aspetti, e forse anche farti perdere la testa. Ma solo per qualche notte...

PS: la foto che accompagna il post è di Paolo Poce, un bravissimo fotografo romano che vive a Milano e di cui ho avuto l'onore di organizzare un'esposizione qualche anno fa. Andate a curiosare sul suo sito www.paolopoce.com

lunedì 11 agosto 2008

Ariecchice

Il tempo a volte non si limita a passare, ma ti esplode in mano. In un minuto sei dall'altra parte del mondo, luglio è volato come solo le cose belle sanno fare, e ora la tua principale preoccupazione è capire quello che devi fare e riprendere il filo del discorso. Tutto mi sembra incredibilmente piu lento, in questo nuovo inizio indiano. Lento e impreciso, come i monsoni che quest'anno si fanno corteggiare, portano umidità e non rinfrescano.
Avrei un sacco di cose da scrivere, ma non mi va, che fondamentalmente poi m'annoio.

Gran dono, quello della sintesi.

mercoledì 25 giugno 2008

I giardini del lago

Il mio nuovo quartiere si chiama Lake Gardens. Sono sempre nella zona sud di Calcutta, un po' piu' verso il centro rispetto a dove ero prima. Il mio quartiere e' piccolo, e si sviuppa intorno a un giardino con un lago in mezzo..beh non a caso visto il nome. Il mio quartiere e' come un paesino nel marasma della metropoli. Macchine ne girano poche, nonostante stia a due passi dal piu' grande centro commerciale di Calcutta, il South Mall. che si succhia l'energia elettrica di tutta la zona e ci regala ogni giorni interruzioni di corrente. Il mio quartiere e' tranquillo, riesci addirittura a non respirare lo smog degli autobus e dei tir, a guardare negli occhi la gente che passa e le forme delle case senza aver paura di essere investito mentre attraversi la strada. Il mio quartiere e' carino, non e' certo il piu' bello in cui ho abitato in vita mia, ma ha degli scorci sorprendenti, se ti fermi un momento e lo guardi bene. Una doenica me lo giro e faccio un po' di foto, e magari le metto pure nel blog

Io e il mio collega ora condividiamo un appartamento in una palazzina a tre piani. Il mio palazzo ha un custode notturno, cosa abbastanza normale qui. Ha un nome lungo, che non mi ricordero' mai, e' magro come un chiodo e ha dei baffi curati. Ha la faccia di quello che ha fatto sto lavoro da tutta la vita. Ha dei modi gentili, ma non servili, parla un inglese stentato ma cerca di farsi capire in tutti i modi. Due cose mi hanno colpito di lui. La prima e' che legge, sempre. Ha un libro foderato in carta di giornale, in bengalese. La seconda e' che tiene sempre accanto a se' un orologio da polso, ancora incartato nella plastica, custodito gelosamente. Io non lo so che tipo e' il mio guardiano. Magari e' un figlio di puttana, o magari no. Ma ha la faccia di uno che in vita sua il culo se l'e' sempre fatto, passando le sue nottate a difendere le case dei ricchi. Ed e' una persona gentile. In una citta' contraddittoria e a volte dura come questa, e' una cosa che fa respirare.

sabato 24 maggio 2008

Emergenza continua


La creazione volontaria di uno stato d'eccezione permanente è divenuta una delle pratiche essenziali degli Stati contemporanei, anche quelli cosiddetti democratici (Giorgio Agamben)


Segnalo un bell'articolo di Giuseppe D'Avanzo su Repubblica.it, che inquadra molto bene la nuova tendenza non solo italiana, ma anche europea e mondiale, sul rapporto tra diritti e potere, sicurezza e legalità. Quello che è sempre più evidente è come i governi dei paesi ricchi tendano sempre di più a moltiplicare le eccezioni e le deroghe al sistema universale di tutela dei diritti umani, in nome della sicurezza, della tutela delle patrie frontiere e della sicurezza dei cittadini, della difesa dello stato nazione.
Ma è ancora più evidente come questo sia il modo più incredibilmente efficace per mantenere il controllo sulla vita dei cittadini, azzerare il confronto democratico e delineare una linea sempre più netta tra chi è dentro e chi è fuori. Nel caso italiano, che conosco più da vicino, si tratta chiaramente dell'ennesima maniera per non voler affrontare alle radici un problema ormai strutturale quale l'immigrazione, mantenendolo sempre come un problema emergenziale, e dunque perennemente "estraneo" al "normale" svolgimento della vita pubblica e privata dei cittadini. Così che il diverso resti diverso, sia a livello micro che macro. La Bossi Fini è un evidente fallimento, le espulsioni non funzionano, i Cpt vanno contro lo stato di diritto, le carceri scoppiano. Ma tutto questo sembra non contare nulla, pensiamo a costruire nuovi centri di detenzione mentre i nostri imprenditori chiedono sempre più immigrati, e noi non possiamo fare a meno di badanti e muratori, ovviamente in nero. Invochiamo legalità ma li costringiamo alla clandestinità, attraverso una burocrazia assurda e ingiustificata (avete idea di cosa si debba fare in Italia per avere un fottuto permesso di soggiorno?) e delle condizioni lavorative ingiuste che sono il principale viatico all'illegalità. Ma la schizofrenia dilaga, e agire sembra diventato molto più importante che riflettere, costruire e programmare soluzioni di lungo periodo. Così come è molto più immediato e mediaticamente efficace cercare il capro espiatorio, e nascondere i nostri scheletri sotto un tappeto che si gonfia sempre di più, mentre cerchiamo di tirare a lucido la facciata decadente e decrepita dell'edificio antico in cui viviamo.

I media stanno giocando da tempo un ruolo chiave in tutto ciò. In Italia, sul modello americano, siamo sommersi dalla disinformazione, o meglio, dalla mala informazione, che amplifica solo ciò che fa comodo al mantenimento dello status quo e aumenta il senso di paura e insicurezza dei cittadini. Ricordate l'omicidio di Giovanna Reggiani a Roma? Il giorno prima, in cronaca di Roma su Repubblica, era apparso un trafiletto in cui si diceva che una donna rumena era stata trovata morta, probabilmente violentata, nella borgata La Storta a Roma. Il giorno dopo, scoperto che la donna era italiana, orrore, sdegno, raccapriccio, (finte) espulsioni immediate, (inutili) sgomberi.

A che gioco stiamo giocando? E' la fine orribile di una vita umana, che ci colpisce e ci sdegna, o questo avviene solo quando funzionale al suo possibile riutilizzo per allontanare i nostri demoni e cacciare le streghe?

Giulietto Chiesa
scrisse una volta che il modo migliore per manipolare l'informazione è affogare le vere notizie in un mare di non-notizie. Esattamente quello che si verifica ogni giorno sui nostri schermi, e questo va ben oltre i problemi legati al fenomeno immigrazione, bensì condiziona a livelli enormi la percezione che la gente ha della realtà che la circonda e dei politici che la governano. Al punto che se un giornalista va in televisione e riporta dei fatti scritti in un libro, fatti che nessuno ha mai smentito, tutti a stracciarsi le vesti e a gridare allo scandalo. Già. Tanto i libri non li legge nessuno, ma la televisione domina le nostre case, in un paese dove il tubo catodico è ancora il principale veicolo di informazione, e fa il bello e il cattivo tempo.

Tornando al discorso iniziale, chiudo citando un mio amico, Daniele Scaglione, che nel suo blog, raccomandando un libro di Fabrizio Gatti (che non ho ancora letto) scrive poche righe che condivido in toto.

Non basteranno i blocchi navali.

Non serviranno mille centri di permanenza temporanea, né leggi come la Turco-Napolitano o la Bossi-Fini, meno che mai potranno far qualcosa le 'ronde padane', i poteri speciali ai prefetti, gli 'allontanamenti', i 'fogli di via'.

Queste sono solo buffonate, che non fermeranno chi attraversa il deserto, facendosi percuotere dai militari ai posti di blocco, sopportando le torture della polizia di un paese, la Libia, con cui l'Italia si vanta di fare accordi di cooperazione.

Non fermeranno chi è disposto a farsi schiavizzare da caporali delle piantagioni di pomodoro e da stimati ingegneri dei cantieri dell'alta velocità.

La soluzione è un'altra: combattere la povertà nel mondo, magari non solo a chiacchiere.

Ma prima di tutto dobbiamo renderci conto che la priorità, nel nostro paese, non è la 'sicurezza'.

E' uscire dal Medioevo in cui siamo piombati, come racconta Fabrizio Gatti in Bilal. Il mio viaggio da infiltrato nel mercato dei nuovi schiavi, uno dei libri più importanti che possiate trovare in circolazione.

mercoledì 21 maggio 2008

Hop on hop off

Taxi. Bus. Metro. Autorisciò. Risciò a pedali. Risciò umano. In una città sempre in movimento come Calcutta, i mezzi di trasporto, qualunque essi siano, sono il sangue che scorre nelle arterie, nelle sue vene, di giorno e di notte. Ci si muove con qualsiasi cosa, con ogni mezzo, e non sempre è detto che il più co modo sia il più rapido. Il tempo che passi sui mezzi di trasporto può essere lunghissimo, anche ore e ore solo per andare e tornare da un punto all'altro, e allora devi sempre cercare di studiare la combinazione migliore che ti permetta di metterci meno tempo, riuscendo anche magari a non farti venire un enfisema polmonare.

E' curioso come a Calcutta la metropolitana, posto che di solito viene considerato come un male necessario, soprattutto nelle ore di punta, o un ritrovo di sbandati, sia qui invece il luogo pubblico probabilmente più fresco e pulito in cui ci si possa imbattere. Un'unica linea, che taglia la città da nord a sud, da Tollygunge a Dum Dum, con i suoi ventilatori sempre accesi e i monitor che trasmettono vecchi video di canzoni bengalesi e i 100 goals più belli del campionato inglese. Funziona bene, è pulitissima e puntuale. E tutto questo per sole 8 rupie, poco più di 10 centesimi di euro. La metropolitana più antica dell'India, motivo d'orgoglio per i calcuttesi. E la stanno anche prolungando...magari per il 2100 ce la faranno.

L'autorickshaw o autorisciò è sicuramente il mezzo più curioso e divertente, diffuso in tutta l'India e geniale taxi collettivo. Sono dei veicoli a tre ruote, tipo Ape Piaggio, dove i conducenti caricano fino a 5 passeggeri. Tutti qui li chiamano semplicemente auto (leggi oto). Hanno delle tratte stabilite, che fanno avanti e indietro tutto il giorno tutti i giorni, divincolandosi nel traffico folle e sfrecciando tra gli autobus colorati e le nuove utilitarie del miracolo indiano. La prima volta che lo prendi, non hai la certezza matematica di riuscire a scendere prima che si sia cappottato almeno una ventina di volte. Poi impari ad apprezzarli, anche perchè gli autisti di autorisciò sono di un'onestà imbarazzante, ti ridanno anche mezza rupia di resto e quasi si offendono se non la vuoi. Piccolo problema: inquinano tantissimo. Pare che ci sia un piano della municipalità per riconvertire tutti gli autorisciò a gpl. Ma la maggior parte di quelli che attualmente circolano non sono registrati, e questo rende questo piano perlomeno ambizioso.

I risciò a pedali in alcune zone sono indispensabili, soprattutto nei quartieri dove i taxi non si avventurano per le strade troppo strette. E quando vedi questi uomini magrissimi, tutto il giorno a pedalare sotto il sole respirando tonnellate di smog, soprattutto quando trasportano queste belle matrone bengalesi panzone avvolte nei loro sari, ti verrebbe voglia di farlo correre a loro il Giro d'Italia o il Tour de France. Non so se sarebbe più avvincente, ma sicuramente girerebbe meno droga e tutto sarebbe più realistico

Il risciò umano non l'ho ancora mai preso, cercando di evitarlo per un mio molto occidentale senso del pudore. In realtà, per i risciò pullers, il loro è un lavoro come un altro. Il governo della città aveva provato a cacciarli, qualche anno fa, dal momento che davano una brutta immagine della città, questi risciò umani che trasportano i loro carri a piedi nudi. Ma non ce l'hanno fatta, e credo che Calcutta sia l'unica grande città in tutta l'India dove ancora li puoi trovare. E tra l'altro, pare siano anche l'unico mezzo di trasporto funzionante durante gli allagamenti monsonici.

L'autobus è una buona soluzione, se solo riesci a capire dove va e dove stanno le fermate, che non sempre sono indicate molto chiaramente. Il metodo è quello sudamericano: lo prendi al volo e ti butti al volo quando devi scendere. Niente porte automatiche, niente finestrini. Il deus ex machina è un tizio che passa le sue giornate con un rotolo di biglietti in mano e una sacchetta coi soldi. Oltre a fare da bigliettaio, rendendo pressochè impossibile non pagare il biglietto, funziona anche da prenotatore di fermata e specchietto retrovisore per il conducente. Quando il bus si deve fermare, batte una volta. Quando è pronto per ripartire, una volta che i passeggeri sono scesi alla loro fermata, batte due volte e il bus riparte. Ma non è sempre detto che il suo doppio battere corrisponda all'effettiva discesa dal mezzo di tutti i passeggeri, specie dell'ultimo malcapitato della fila. Per cui, quando prendi un autobus a Calcutta, preparati a saltare, e soprattutto, a girare la testa verso sinistra appensa scendi. Se sei distratto, niente di più facile che un autista di autorisciò spunti a tutta velocità e decida di farti salire a bordo, anche contro la tua volontà. O che decida, molto più semplicemente, di salirti a bordo.

Nella foto: scorcio dello slum di Howrah ripreso da un risciò a pedali dal Magritte medesimo.

mercoledì 7 maggio 2008

Un punto più in là


Si è chiusa una settimana lunga, forte, fatta di lavoro intenso e solitudini, anche un po' cercate, di dolore riflesso e nuovi incontri, del brusco passaggio dal caos cittadino alla pace di nuove frontiere. Tante emozioni, davvero, che mi tengo dentro, perchè comunque non è questo lo spazio giusto per parlarne.

Una cosa mi resta, e sono i paesaggi e i monasteri del Sikkim, il ventiduesimo stato indiano, incastrato tra il Nepal e il Tibet, dove purtroppo sono riuscito a stare solo due notti e una giornata, dopo un'ora di aereo e le cinque ore di macchina forse più travagliate della mia vita. Non starò qui a menarla con la storia del Sikkim, anche perchè le poche cose che so io potete tranquillamente trovarle su una qualsiasi guida o su Wikipedia. Quello che mi porto dentro sono le montagne, dove non tornavo da tanto, una bella camminata tra la pioggia e le sanguisughe, passando attraverso un monastero buddhista sulla cima di una collina. L'aria fresca come non la respiravo da tempo.

Sono giorni di passaggio, fisico e mentale. La mia vita qui si sta stabilizzando, anche se per certi aspetti è molto più precaria dell'inizio. Tutto è molto forte, sempre, e questi due mesi trascorsi mi sembrano anni.

E ognuno intanto si fa il suo giro, questo pensavo mentre guardavo le mie compagne di viaggio, i loro volti assorti lungo la strada. Gente che per curiosità, passione, caso o chissà cos'altro, ha scelto di vivere almeno parte della sua vita lontano da un posto che potrebbe chiamarsi casa.
E lo pensavo guardando il piccolo Buddha che mi spiegava gli affreschi del suo monastero dal nome impronunciabile.

Gli chiedo quanti anni ha, mi pare mi abbia detto di averne quattordici. E' lì solo da pochi mesi, e lo attende una vita di studio e meditazione. L'avrà scelto lui? Sa cosa sta facendo? A un certo punto tira fuori delle monete da un sacchetto. Vengono da tutte le parti del mondo, forse gliele avranno regalati i turisti, che frequentano sempre di più la zona. La mia collega gli regala una moneta da un euro e una da venti centesimi. Lui le sorride e la ringrazia, mentre la luce di una mattinata nuvolosa illumina le stanze affrescate e le statue di Buddha. Fuori, nel vento, sventolano grandi bandiere gialle, rosse, blu, e le loro preghiere riempiono la vallata.

domenica 27 aprile 2008

Waiting for the Big Heat

Sabato. Ennesima serata di saluto per un'amica che parte.
Da quando sono qui, il numero delle persone che ho conosciuto e quello delle persone che entro metà maggio lasceranno Calcutta, temporaneamente o definitivamente, tendono sempre di più a equivalersi. Non è un caso che ciò avvenga in questo periodo dell'anno.

Ultimamente, la parola Maggio spunta sempre più fuori nelle discussioni serali e non, come una sorta di mostro deforme e minaccioso, che si avvicina sempre di più alle porte della città. Tutti mi continuano a ripetere di prepararmi, che il caldo visto finora è ancora nulla. Io continuo viceversa ad autoconvincermi che ce la posso fare, che in fondo il caldo lo reggo bene. Però, va detto che in effetti ci sono dei segnali del mostro in arrivo. Chi può, letteralmente, scappa da Calcutta, città rinomata per il suo clima mediterraneo e temperato, prima che arrivi il mese più caldo, quello in cui la temperatura è fissa sopra i 40, l'asfalto si scioglie e tutto, mi raccontano, sembra essere immobile prima del tramonto. Per non parlare del tasso di umidità...E da giugno, poi, ci sono i monsoni, che si spera comincino a inizio mese, perchè, se fosse come lo scorso anno, in cui i sono iniziati molto tardi, giugno si porterebbe dietro tutto il caldo accumulato dal mese prima.

Inizia il vero periodo di prova. Mi sto preparando all'arrivo del Grande Caldo, e di un mesetto barra due almeno di vita sociale piuttosto ridotta.

Se c'è una cosa su cui troverete piena concordanza nelle guide turistiche, è: evitate l'India tra maggio e settembre. Appunto.

domenica 20 aprile 2008

Il disco della domenica

Quella che vedete qui a fianco è la copertina di quello che ho eletto mio personale "disco della domenica". Durante i miei mesi di vita a Bruxelles, questo era l'album che mi riconciliava col mondo nel primo pomeriggio della domenica, quando i postumi delle sbornie della sera prima erano ancora troppo forti e avevo soltanto bisogno di calma, caffè e solitudine assoluta.

I dEUS sono un gruppo belga, sicuramente il più famoso del paese, e uno dei più conosciuti anche all'estero tra gli estimatori del cosiddetto "rock alternativo". Di nome li conoscevo già, ma è stato il mio proprietario di casa nonchè (saltuario) coinquilino nonchè cocantante e cochitarrista nonchè compagno di bevute fiammingo a farmeli conoscere davvero.
La musica dei dEUS è un miscuglio perfetto di rock, pop, sperimentazione e ironia. Questo disco in particolare fu molto criticato all'epoca della sua uscita perchè cosiderato troppo commerciale rispetto ai lavori precedenti della band. Secondo me, invece, è un disco pressochè perfetto, un'ottima sintesi musicale, suonato e prodotto in modo eccellente, con quel pizzico di distacco e leggerezza che fa tanto Belgio. E che fa tanto domenica. Anche i lavori successivi dei dEUS non sono affatto male, ma non raggiungono questi livelli.

Stavo completando le mie valigie prima di partire per l'India, quando mi sono accorto che questo cd non l'avevo più nella mia copia azzurra masterizzata. Perso, chissà dove. A distanza di quasi un mese e mezzo da questa amara presa di consapevolezza, oggi finalmente EMule me lo ha regalato di nuovo (dubito che riuscirei a trovarlo qui in originale anche se volessi). E in questa bella domenica di sole a Calcutta, con le strade dolcemente silenziose e la luce tenue del pomeriggio, avevo proprio bisogno di ascoltare di nuovo la voce deliziosamente scazzata di Tom Barman. E me lo immagino girare insieme a me per le strade ella città, con uno dei suoi completi scuri sdruciti e un vecchio borsalino stile Tom Waits, mentre si beve un chai e mi chiede col suo francese dall'accento fiammingo dove può trovare una Leffe rossa.

Vi lascio sulle note di "The Magic Hour", quarta traccia, un vero toccasana per l'anima.

Ho appena scoperto che domani esce il nuovo disco dei dEUS. Sarà un caso?

domenica 13 aprile 2008

Da qua fuori


Per la prima volta in vita mia, ossia da 10 anni a questa parte, non voto per le elezioni politiche. Fino all'ultimo avevo pensato che, tutto sommato, poteva anche andar bene così, perchè stavolta mi sarei trovato in forte difficoltà. Come molti, d'altronde. Vista da fuori, questa campagna elettorale sembra forse ancora meno intensa di quanto non si legga e si veda in Italia. La disillusione, lo scoramento, sono palpabili, siamo un paese che sembra non trovare una via d'uscita, al momento. Io una mia idea del perchè ce l'ho, ma sarebbe troppo lungo da scrivere qui.

Alla fine, però, mi dispiace di non essere lì a votare, e a seguire le elezioni del governo del mio paese. Sarà strano vedere i risultati a distanza, da internet, senza poterli vivere in mezzo alla gente. Anche se la politica del "meno peggio" non mi è mai piaciuta, stavolta spero solo che si riescano a limitare i danni.

No more psychonano, please.

venerdì 11 aprile 2008

Residui

Calcutta, notte fonda, quasi le tre.

Ripartiamo da qui. Dal caldo. Dal ventilatore acceso di giorno e di notte. Dai fischi dei guardiani. Vediamo cosa succede. Le notti senza sonno ispirano l'uomo da sempre. Penso a mio padre, e alle poesie che ha scritto di notte, quando ero piccolo. Ho un vago ricordo, la luce accesa nel suo studio e lui che scrive. Ormai non lo fa più da anni, ed è un peccato, era proprio bravo. Ma mi ha detto qualche tempo fa che ha smesso di farlo quando ha capito di non essere più ispirato, e se è così, ha fatto bene. Magari scrive dentro di sè, e sono sicuro che scrive cose bellissime.

L'ennesima sigaretta, e dire che mi ero riproposto di smettere...sarà che qui costano così poco.

Fa caldo in questa casa, in questa città. E i visi passano, scorrono. La gente parte, ne arriva di nuova. Ci abituiamo alle distanze, senza interiorizzarle mai. Amicizie che durano, rapporti che non nascono per mancanza di spazio. Cerco i frammenti dei luoghi in cui ho vissuto, delle persone lontane. Li ritrovo su uno schermo piatto, non è abbastanza, non è mai abbastanza. Ascolto canzoni che ho suonato, musicisti e amici con cui ho condiviso lavoro, sudore, passione. Ho cancellato i vecchi post, ma li conservo, traccio una riga.

Sono qui da un mese, e tutto va bene. Mi concedo il mio spazio, evanescente come una nuvola di fumo, che respiri a pieni polmoni anche se sai che non fa bene.

Fino a un po' di tempo fa, giocavo a dividere le fasi della mia vita, dargli un nome, a volte di persona. Ora non lo faccio più, ho capito che è tutto un divenire, tutto è parte dello stesso album, le foto mosse e quelle da copertina. Sono sempre io quello nella foto, circondato di volta in volta da protagonisti e comprimari. I secondi restano lì, in posa, col loro sorriso. I primi non sono poi così tanti, ma ci sono sempre, e non li dimentico. Anche a qualche oceano di distanza.

martedì 1 aprile 2008

Calcutta, notte, ore 00:43

Da mezzanotte in poi, a intervalli più o meno regolari, per tutta la notte, cominciamo a sentire una serie di fischi. Sono i guardiani che fanno la ronda. Il capo guardiano, che sta proprio sotto casa nostra, fa il primo fischio, gli risponde un altro guardiano, poi ne fa un altro, e si sente un suono appena più lontano, e così finchè non si chiude il giro. Se tutti rispondono al primo, vuol dire che va tutto bene. Se uno non risponde, c'è qualche problema. Tutta la notte, ogni ora.
Talvolta ne senti qualcuno cantare. Melodie semplici, in hindi o bengali, come una nenia gentile, una ninna nanna nel silenzio di una strada qualsiasi di questa città.

Calcutta di notte può essere l'inferno, e il paradiso allo stesso tempo. La vedi docile percorrendola in taxi, senza il traffico paradossale e totalmente illogico che la strangola di giorno. L'aria è un po' più respirabile, le strade vuote, le luci gialle la illuminano come una qualsiasi altra città. Per un momento ti sembra tutto grande, aperto, misuri gli spazi in un modo diverso, ti sembra che anche questa città possa essere tua.

Ma i fantasmi, che fino a sera sono mischiati in mezzo alla folla, di notte li vedi bene, uno ad uno. Difficilmente di giorno Calcutta delinea i confini tra la ricchezza e la povertà. Alla luce del sole torrido, mai veramente brillante, velato di fumo e clacson, tutto trabocca fuori, come in un immenso pentolone, dove un dio schizofrenico, più che malato, fa ribollire milioni di vite umane.

La notte, invece, la povertà la vedi con la lente, la vedi da vicino, anche se tu sei lontano al tempo stesso, e ti fa paura. Dormono per terra, dove capita, tanti, tantissimi, ovunque. Vicino ai cani, sbattuti in mezzo alla strada, come rassegnati al loro destino, quello di finire sotto una macchina, o divorati dai loro stessi compagni di sventura. E se stai qui, devi farci il pelo, immediatamente. A vedere marciapiedi che da un giorno all'altro diventano case di fortuna, con un telo come tetto e un secchio pieno d'acqua come lavandino. A guardare per terra, quando cammini, per non calpestare un cane che dorme, o un bambino che vaga da solo, nudo. Altrimenti non resisti. Il senso di impotenza e rassegnazione talvolta lo tocchi con mano, trasuda, te lo senti addosso. Proprio come i randagi di Calcutta, che, mentre gironzolano in cerca di qualche osso, sembrano conoscerlo già, il loro destino.

Calcutta non è solo questo, è riduttivo e semplicistico pensare che sia nient'altro che la città delle baracche e di Madre Teresa E' mille altre cose. La capitale culturale dell'India. Una città che si evolve continuamente, per certi aspetti, e che resta incredibilmente uguale a se stessa per altri. L'ex capitale dell'Impero inglese. Una metropoli molto più sicura di quanto la sua pessima fama non faccia credere. Una delle maggiori città di uno stato che cresce a ritmi vertiginosi, e dove vedi spesso una classe media che si espande, imitando i modelli di quello stesso capitalismo avanzato che ora vorremmo frenare. Mica perchè siamo buoni, semplicemente perchè ci rode che ora loro inquinino e distruggano ulteriormente quello stesso mondo che stiamo distruggendo noi. E poi, accanto agli aumenti da capogiro del pil indiano, una povertà che sembra non finire mai. Il paese degli ingegneri richiesti in tutto il mondo e di un analfabetismo che non dà tregua.

Meglio andare a dormire prima che parta la prossima ronda. Anche i guardiani hanno smesso di cantare, e di sbattere in terra i bastoni di bambù, per far sentire a qualche malintenzionato che loro ci sono, e, anche stanotte, non dormono.